Federico Bonelli
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# Resilienza e aRTE Intervento per l'incontro organizzato dalla Biennale di Venezia/Architettura dalla Fondazione Dona' Federico Bonelli Fondazione Trasformatorio Amsterdam/ Scoglio di Mezzomare (Golfo di Patti) La Resilienza dell'immaginario Il sigillo si imprime nella cera. Pensiamo al sigillo. Non alla temperatura della stanza. Eppure se siamo alla mezzanotte del 20 dicembre a Thorndheim e la temperatura esterna e' di -23 gradi celsius la cera potrebbe avere la consistenza del granito. Il sigillo non la scalfisce. L'immaginario, da solo non va abbastanza lontano, ha necessita' della pratica. Praticare l'immaginario e' l'attività dell'artista, che esplora un paesaggio semantico fatto di possibile e lo incorpora nello spazio e nel tempo. Con il corpo dell'opera, dello spettatore e con il suo. Lo pratica. Lo vive. Ne disegna la stanza della "situazione", una scatola sempre aperta, in cui e' impossibile intrappolarci il quantico gatto... Il sigillo e' dei filosofi, la cera della storia. La stanza gelata dell'artista-alchimista, in cui un colore prende forme impossibili per l'intelletto. In cui uno Strindberg dipinge il proprio inferno mentre lo scrive. Milioni di volte in milioni di Stindberg, in milioni di inferni congelati, che siano o no "percepiti" da un editore, da una biennale o da un programma televisivo. Trasformatorio e' una fondazione che raccoglie esploratori di paesaggi interiori, di semantiche ibride, e di inferni e paradisi reali. Boschi, borghi, periferie, palazzi o sentieri, sogni o incubi, ai confini tra le province e le carte geografiche. Questi esploratori sembrano spesso incompatibili tra loro, evolvono da sensibilita' differenti, anche in modo radicale eppure convivono, collaborano, producono. Il laboratorio li integra in modi impossibili e pericolosi... Artaus avrebbe detto crudeli, perche' cercano il vero. L'attivita' del trasformatore e' fondamentalmente quella di stabilire la situazione in cui si materializza l'incontro tra queste sensibilita' crudeli e il mondo, perche' la nostra arte (da artificio ma anche da atto) prenda la forma appropriata al mondo e non quella prevista dal progetto, dal modello, dalla volonta' di chi il mondo lo controlla. Il visitatore, lo spettatore, colui che passa nello spazio e nel tempo del trasformatorio e "vede", e' sempre parte attiva. Il rapporto e' diretto e viaggia sul piano orizzontale. La sua armatura non e' concetto, ma spazio-tempo e motivazione. La dramaturgia del trasformatorio e' per sua stessa funzione spalancata verso il mondo. Spostare la sensibilita' di chi attraversa il luogo per lasciarla aprire, lasciarla popolare di eventi e concetti disegnati ad arte. Cio' necessita a volte solo di uno spostamento infinitesimale, forse il *clinamen* di cui parla Lucrezio, fatto evento spirituale e fisico allo stesso tempo. Sensibilita' alle condizioni essenziali e non solo iniziali. Per questo ci prepariamo, su questo dobbiamo capirci. Il materiale della nostra azione e' di per se povero. Sul sito troverete i comandamenti del teatro laboratorio di Grotowski. Peter Brook parla di "spazio vuoto", la piu' potente delle situazioni, potentemente archetipica. In Brook Il palco non esiste piu', sostituito da un tappeto. Il testo scenico diventa un esercizio di presenza essenziale: come puo' un tappeto essere ancora la scena dell'Amleto o Re Lear, se la situazione e' un mercato sub-sahariano e il testo recitato in una lingua incomprensibile al pubblico? La situazione estrema produce l'essenza, la scoperta del cuore dell'azione. Nel teatro di Brook gia' dagli anni '60 del '900. Nelle nostre arti mediali? Nel suo libro sulla regia Eugenio Barba parla del Rituale Vuoto. L'essenza necessaria. Dove e' l' essenza necessaria nel nostro barocco minimal, d'arti del XXI secolo? Noi ci siamo svegliati in un millennio differente, in cui tutto il possibile sembra riempirsi di relazioni, descritte esattamente da parole/prodotto sognate dal mercato. E' una relazione tra cio' che esiste e cio' che e' immaginato apparentemente e inesorabilmente rinchiusa nella rete di Efesto del dato percepito come realta', nel mondo-gadget che brucia benzina e spazio vitale. Se la proposta di questo zeitgeist e' che tutto e' evento e come tale lascia traccia. Che ne e' di noi? Noi siamo partiti con lo spirito del buon osservatore a cercare al buio, con gli occhi chiusi e graffiando con le mani ai confini tra queste zone illuminate da un sole distruttore, "rotativa universale" e la notte. Abbiamo cercato nelle situazioni, esistenti o disegnate ad hoc, in cui questi due spazi si ibridano, si distraggono, sfocano. Non piu' spazio-tempo della carne ma neppure spazio-tempo del digitale. Durante la pandemia abbiamo esplorato l'immaginario attraverso la forma della Radio, in cui parlare da soli e ascoltare da soli diventano moltitudine e condivisione. E non bastava. Abbiamo insistito cercando in quell'ibrido che si incatena ad un luogo reale, Cosio d'Arroscia, paese remoto e spopolato delle alpi liguri. E' un paese percorso da fantasmi contemporanei, in cui abbiamo praticato un laboratorio di trasformazione *sui generis*, prima in assenza e poi in presenza. Lo scopo e' stato di entrare con forza nell'ibrido; nello spazio pieno di corpo e informazione in cui ne il primo elemento ne il secondo si incarna pienamente. E in questo spaziotempo la mappa e' data dal territorio perche'-io-ci-cammino: dalla deriva situazionista, dal rapporto conflittuale di chi passa e passera' con la storia e la condizione essenziale del luogo vuoto. La condizione e' sociale, l'attraversare il luogo non e' un atto artistico (tra arte e spettatore) ne economico (fruitore e produttore di un astratta "cultura"). La contaminazione e' con tutti i partecipanti alla situazione, con l'acqua, le pareti, le strade, le erbe, i passanti, gli abitanti ignari, quelli che partecipano, gli artisti presenti, quelli distanti... La resistenza al trauma e' resilienza rispetto ad una memoria che muore con i corpi e con le funzioni delle architetture, e che poi emerge nuovamente trasformata, *ex-artis atque nihilo*. E si rigenera. Il sigillo ha un peso, una temperatura. Puo' essere arroventato alla fiamma e bruciare la mano e la cera. Frigge la pelle e odora di bruciato. Qui. Ora. L'essenza dell'arte come movimento e azione e' essere crudele in quanto viva, rischiosa, necessaria. Il senso di questa crudelta' e' pienamente quello invocato da Antonin Artaud, di farsi esperienza di corpo e di voce prima che di senso. Anche di corpo tecnico della nostra societa', di tecnologia, deve essere digerito cosi', perche' e' necessario. Qui e ora, evocato dal grido, imprigionato dal sistema tecnico di riproduzione, dal mercato, dal politico, trasformabile da un medio all'altro, eppure semanticamente incatenato alla situazione originaria in cui e' stato **esperito**, o a quella in cui incidentalmente, si pone, di volta in volta, trasformato. Il nostro trasformatore e' in se algoritmico perche' abbiamo appreso che l'algoritmo descrive il caos in modo estetico. Il flusso, l'energia e la sua qualita', l'ipotesi terrificante dell'eterno ritorno e il caso descritto dal logos, che esplode nella vita essenziale come Dionisio e come la danza di Shiva. In un racconto della Saga di Snorri, riportatoci da Ivar Ekeland nel suo libro sul caso, una terra e' contesa da due eserciti che si fronteggiano. Prima di dare inizio alla carneficina i due re decidono di giocarla ai dadi. Per due volte il punteggio dei dadi e' dodici per entrambi. Re Olaf chiede l'intervento del suo Dio. Il dado lanciato si rompe in due, posandosi sulle meta' del sei e dell'uno. il punto e' 13, la carneficina evitata dalla meraviglia, il re Olaf ricordato come un santo. Le traiettorie dell'attrattore strano ci portano a considerare semantiche radicalmente nuove. Anche li esperirle e' necessario, non per determinarne il confine tra ordine e disordine, tra razionale e irrazionale, sanita' o pazzia... E' necessario osservare queste traiettorie e il loro senso per aprirle ad altro, per dimostrare la limitante caratteristica del bisturi intellettuale, che separa cose morte per studiare corpi vivi e la forza dell'azione artistica. La poesia che dobbiamo fare e' quella fatta con corpi e la tecnica assieme, in entrambi i casi trasformata da barbara e brutale a civile e crudele. La tecnica va' violentata da sciamani che ridono. E poi riassemblata da artigiani sapienti all'eco della stessa risata. Questa poetica va cercata "in vivo res", per operare la taumaturgia sul corpo del secolo, non per determinare i confini delle sue parti morte. L'arte e' strumento di resilienza quando opera sull'immaginario e sul corpo allo stesso tempo e lo fa in pubblico, in mezzo alla vita e alla societa'. La nostra ricerca artistica diventa trasformatore quando e' in grado di auto-ri-prodursi nella situazione che abita, e che abbiamo evocato per lei. L'atto creativo allora camminera' sulle sue zampe e scappera' urlando dal recinto, tra le risa liberatorie dei testimoni del prodigio. Il sigillo ha un disegno, che lega oltre i limiti della pietra su cui e' inciso. In Alassio 26 giugno 2021, evocando la vecchia Gabbilibbe' [1] Ivar Ekeland "A Caso", tr. Libero Sosio, Bollati Boringhieri 1992

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